di Michele Bellelli

Nei giorni immediatamente precedenti l’attentato di Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914, si verificò in Italia la cosiddetta “settimana rossa”, fra il 7 e il 14 giugno; una serie di scioperi e di tafferugli scatenati, soprattutto nelle Marche ed in Romagna, in occasione delle celebrazioni per lo Statuto Albertino per protestare contro la politica militarista del governo. Ad Ancona tre scioperanti vennero uccisi dalla forza pubblica.

In varie città italiane venne proclamato lo sciopero generale per protestare contro l’eccidio e a Reggio Emilia gli operai delle Reggiane scesero in piazza il 9 e 10 giugno. Il primo giorno il prefetto aveva comunicato al ministero dell’interno che circa 2000 operai avevano abbandonato il lavoro e si erano riversati nelle vie del centro, pubblicando anche un manifesto di protesta. Nessun incidente aveva turbato l’ordine pubblico. Al comizio tenuto in piazza Vittorio Emanuele II (oggi Prampolini) erano intervenute complessivamente circa 4000 persone. Fra gli oratori c’era l’assessore Alberto Curtini, il direttore de La Giustizia Giovanni Zibordi e l’operaio anarchico Edoardo Albieri. Per assicurare l’ordine pubblico e “togliere dalla circolazione elementi teppisti” era giunto da Parma un reparto militare forte di 400 uomini. Il giorno successivo gli scioperi si erano estesi ai comuni di Rubiera, Casalgrande, Bagnolo in Piano, Correggio e Scandiano. Gli operai delle Reggiane, circa 1400, erano quelli che più di tutti tentarono di provocare disordini, per la verità scongiurati. Secondo il telegramma del prefetto, parecchi di loro, accompagnati da gruppi di anarchici, tentarono di prendere possesso della stazione ferroviaria per impedire il passaggio dei treni, ma ne furono dissuasi dalla forza pubblica.

Successivamente all’entrata in guerra dell’Italia, le Reggiane conobbero la loro prima grande espansione grazie alle commesse militari e alla società Caproni, per la quale costruì su licenza alcuni aerei da guerra; i dipendenti erano circa 6000, fra i quali 1200 donne. In quel periodo non si registrarono conflitti sindacali, anche se non mancarono momenti di tensione, causati più che altro dagli attriti fra la direzione e l’ufficio di controllo interno dell’esercito, con quest’ultimo che solitamente prendeva le difese degli operai contro i dirigenti. Fra il 1915 e il 1918 vennero costruiti dall’azienda milioni di proiettili di artiglieria di ogni calibro(1).

Cessato il conflitto, per l’intera industria nazionale si presentò il problema della riconversione della produzione bellica in altri prodotti e le Reggiane non fecero eccezione, ripristinando le precedenti costruzioni ferroviarie.
Caratterizzati da un’inedita violenza politica, gli anni seguenti sono stati intensi per la principale fabbrica cittadina che venne anche occupata dagli operai per alcuni giorni nel settembre 1920.
Per assicurare la buona riuscita dell’impresa vennero create le cosiddette Guardie rosse che, armate, proteggevano gli stabilimenti e gli operai. Fra di loro possiamo ricordare Camillo Montanari e Angelo Zanti, due comunisti che negli anni successivi sarebbero stati uccisi dai fascisti. Montanari in Francia nel 1935, dove si era rifugiato, mentre Zanti (divenuto uno dei capi della Resistenza reggiana) dieci anni più tardi sarebbe stato fucilato dai repubblicani presso la caserma Zucchi.

Il 28 gennaio 1921 venne indetto anche un referendum fra i dipendenti per decidere se mantenere la forma di proprietà privata o trasformare l’azienda in una cooperativa gestita dagli stessi dipendenti. Fu il primo referendum del genere nel nostro paese e la proposta pro cooperativa fu bocciata dagli elettori con uno scarto di soli 36 voti: 958 contrari contro 922 favorevoli (2).

Negli anni della dittatura fascista, le Reggiane conobbero alterne vicende societarie fino al 1935, quando passarono sotto il controllo della società aeronautica Caproni, grazie alla quale prese il via la progettazione e la costruzione dei caccia della serie RE e di altri velivoli costruiti su licenza della casa madre. Il controllo dei dipendenti della fabbrica fu sempre prioritario per il regime, anche in considerazione del fatto che rimase sempre attiva una piccola organizzazione antifascista. Soprattutto nella seconda metà degli anni trenta avvennero diverse retate ed arresti che coinvolsero operai delle Reggiane e che consentirono al tribunale speciale di comminare pene detentive e confino ai malcapitati.

Negli anni della guerra l’attività clandestina riprese, concretizzandosi in atti di sabotaggio contro le linee di montaggio degli aerei, nella distribuzione di stampa antifascista, in scritte murali inneggianti agli alleati e a Stalin. I sabotaggi erano però spesso frutto di iniziative individuali, piuttosto che il risultato di un’organizzazione vera e propria, c’era chi gettava fusti di diluente nei tombini delle fogne, chi schiacciava tubi ed attrezzi e chi lasciava le luci accese durante gli allarmi aerei, in barba alle norme sull’oscuramento. Tuttavia si cercava di fare il possibile per sabotare la guerra voluta dal fascismo. Come ha ricordato in una sua testimonianza l’operaio Risveglio Pattacini: “Il sentimento dell’antifascismo era molto radicato in noi, anche se all’inizio non ci giungevano molte direttive dall’esterno: la nostra realtà quotidiana, la nostra situazione, le nostre paghe ci obbligavano ad essere antifascisti”. Una presa di posizione chiara: di Togliatti o di Stalin si sapeva ben poco, in compenso erano ben presenti gli affanni quotidiani come i salari del tutto insufficienti, le prepotenze del fascismo, i licenziamenti arbitrari anche per motivi politici, lo stato di guerra pressochè ininterrotto dal 1935, le polizie segrete e i tribunali speciali che stroncavano ogni minima forma di opposizione. Sulla testa degli operai, dei contadini e di chiunque non volesse riconoscersi nel fascismo era stesa una cappa di violenze e di intimidazioni.

L’operaio Napoleone Azzolini ha spiegato come si poteva procedere in modo relativamente semplice e poco rischioso: “A volte si trovavano macchine che non andavano, o per l’albero storto, o per un ingranaggio spezzato. Spesso sparivano le cinghie delle pulegge, anche perchè venivano utilizzate per ritagliarvi suole da scarpe… una volta finirono nelle fogne degli importanti pezzi che dovevano servire per fusti d’artiglieria. Non li trovarono e i fusti partirono con un enorme ritardo”. Un operaio sconosciuto ha invece lasciato questa testimonianza: “Per sabotare accendevo la luce dei capannoni durante i bombardamenti o versavo nelle fogne del diluente che allora costava discretamente, oppure si lavorava più lentamente. Mettevamo anche della sabbia nei motori d’aereo, oppure versavamo dello zucchero nel carburante nonostante fosse allora molto scarso e molto costoso. Tutto però avveniva individualmente o, al massimo, a coppie e non ci si doveva fidare di nessuno”.

Rubare le cinghie delle pulegge per risuolare le scarpe: era questa la condizione di vita della classe operaia nel paese che aveva proclamato il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma e che voleva spezzare le reni ai suoi nemici con otto milioni di baionette (3).
Per contrastare questo genere di attività, all’interno dello stabilimento prese a funzionare una stazione dei carabinieri e un distaccamento dei servizi segreti militari. Testimonianze delle attività antifasciste le abbiano proprio grazie ai documenti delle forze dell’ordine che fra gennaio e luglio 1943 identificarono e arrestarono decine di oppositori politici sia alle officine di Santa Croce che alla Lombardini. Alcuni degli arrestati erano accusati di aver partecipato ad attività comuniste come la distribuzione de L’unità e di aver raccolto fondi per il partito, mentre altri, soprattutto quelli più giovani, erano accusati di aver scioperato nell’aprile 1943 chiedendo un aumento delle razioni di pane. Il periodo dello sciopero, detto degli apprendisti per la giovane età dei partecipanti, è importante perchè coincide con i grandi scioperi operai del nord Italia (Fiat, Breda, Falck, Pirelli, Marelli…) anche se a Reggio Emilia ci fu una partecipazione più modesta.
Solamente due degli arrestati vennero rilasciati senza alcun provvedimento nei loro confronti: Secondo Agnelli e Francesco Miari, entrambi delle Reggiane (4).
Agnelli e Miari erano gli unici capireparto del gruppo di detenuti ed è possibile vedere il loro rilascio immediato nell’ottica di un favore fatto alla direzione delle Officine, che non voleva privarsi delle capacità professionali di due preziosi ed esperti tecnici (Agnelli era alle Reggiane dal 1913) (5).
Direzione che fu quindi molto interessata alla sorte dei suoi operai arrestati, come si evince dalle numerose lettere, tutte marcate come riservate, che ricevette dal Servizio di sorveglianza disciplinare e personale operai sin dal 28 aprile. Il capo guardia, Augusto Spaggiari, ad ogni retata della polizia presentava zelantemente l’elenco degli operai finiti in manette e le loro qualifiche professionali. L’ultimo rapporto del Servizio di sorveglianza disciplinare porta la data del 12 luglio 1943, ad appena un paio di settimane dalla caduta di Mussolini e dall’eccidio dei nove operai il giorno 28. Vi si possono leggere i provvedimenti definitivi presi a carico degli arrestati, in particolare la lista di coloro che, a causa della condanna politica, sarebbero stati interdetti a lavorare presso lo stabilimento di Santa Croce (6).

La detenzione dei condannati politici non durò a lungo. Il 25 luglio 1943 i giornali e la radio informavano gli italiani che Vittorio Emanuele III aveva accettato le “dimissioni” di Benito Mussolini da Capo del governo e nominato in sua vece il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio che proclamò, spavaldo, che la guerra continuava a fianco dell’alleato germanico. Ben pochi in tutta Italia credettero alle parole del vecchio condottiero e pensarono che la fine della guerra fosse imminente. In tutto il paese si improvvisarono manifestazioni antifasciste e a favore della pace culminate solitamente con l’assalto e la distruzione delle sedi del PNF, fra l’indifferenza totale delle camicie nere, scioltesi, nelle parole Hitler, come neve al sole. Le manifestazioni del 25 e 26 luglio ebbero generalmente due obiettivi: una, come accennato, le sedi del disciolto partito fascista, l’altra le carceri e le prefetture dove i manifestanti chiesero, e generalmente ottennero, la liberazione dei detenuti politici. A Reggio Emilia poterono uscire di prigione il giorno 26, inclusi quelli appena arrestati alle Reggiane e Lombardini e condannati da pochissimi giorni (per alcuni di loro il procedimento giudiziario non era ancora nemmeno terminato).
Il 26 luglio le manifestazioni contro le sedi del PNF e alla Prefettura si erano risolte senza alcuno spargimento di sangue, instillando forse nella popolazione la pericolosa convinzione che le misure draconiane ordinate alle truppe (reprimere qualsiasi manifestazione come se fossero state in combattimento al fronte contro il nemico e utilizzando qualsiasi arma a disposizione) fossero rivolte contro i fascisti e i tedeschi e non contro i civili.

Due giorni più tardi centinaia di operai delle officine Reggiane abbandonarono i loro reparti per formare un corteo diretto in città e manifestare in favore della pace. Ai cancelli di via Agosti vennero fermati da gruppi di armati: le guardie giurate dell’azienda e un drappello del 12° reggimento bersaglieri (acquartierato all’epoca nella caserma di via Dante Alighieri, in quella che oggi è la sede della Questura). All’intimazione di sciogliere il corteo e tornare al lavoro gli operai risposero innalzando ritratti di Vittorio Emanuele III per persuadere i militari che non avevano intenzioni ostili. L’ufficiale al comando non intese ragioni e ordinò di aprire il fuoco, ma i suoi uomini disobbedirono e spararono una raffica in aria.
Ordinò nuovamente di aprire il fuoco e questa volta nove persone (inclusa una donna incinta) rimasero a terra prive di vita e molte altre furono ferite dalle raffiche dei bersaglieri (7).
L’eccidio del 28 luglio 1943 ebbe anche un sanguinoso strascico durante la guerra di Liberazione quando un ufficiale dell’esercito, un certo tenente Luciano Loldi, fu assassinato in un agguato partigiano. L’azione era stata voluta per vendicare l’eccidio delle Reggiane nella convinzione, purtroppo errata, che il tenente Loldi fosse stato l’ufficiale al comando quel giorno.

Dopo l’8 settembre 1943 l’azienda e i suoi operai e impiegati furono di fatto costretti a lavorare per i tedeschi, subendo i bombardamenti degli angloamericani che causarono oltre duecento morti e gravissimi danni materiali, piegandosi anche al trasferimento forzato di impianti e lavoratori in luoghi più sicuri per i tedeschi. Molti dipendenti perdettero il lavoro, altri furono deportati in Germania ed altri ancora si unirono alle fila della Resistenza (8).
Nel marzo 1944 ci fu un’altra ondata di scioperi nelle principali fabbriche di tutto il nord Italia, Milano, Torino, Genova principalmente. Alle Reggiane di fatto non si poté scioperare perchè lo stabilimento era stato bombardato due mesi prima e la produzione era quasi azzerata. Alcuni reparti erano stati decentrati in Lombardia e Veneto con conseguente dispersione tanto dei macchinari, quanto dei dipendenti.
Durante la guerra di Liberazione molti dipendenti delle Reggiane aderirono alla guerra di Liberazione, fra i tanti cito Ovidio Beucci di Scandiano, ucciso il 5 maggio 1944. Alla sua memoria fu intitolato un distaccamento partigiano della 26^ brigata Garibaldi.

(1) Michele. Bellelli, Reggiane, cronache di una grande fabbrica italiana, Aliberti, Reggio Emilia 2016, pagg. 20-23
(2) Michele. Bellelli, Reggiane…, pagg. 24-28
(3) Guerrino. Franzini, Concorso per ricerche storiche fra studenti, in RS-Ricerche storiche nn. 17/18, Istoreco, Reggio Emilia 1972
(4) Giannetto. Magnanini, Gli operai delle Reggiane contro il regime fascista e nella lotta di Liberazione (1921-1945), Fiom, Reggio Emilia 2005, pagg. 39-40
(5) Dario. Melossi, Restaurazione capitalistica e piano del lavoro, lotta di classe alle Reggiane (1949-1951), ESI, Roma 1977
(6) Archivio Istoreco, busta 32H, fascicolo 2
(7) Antonio Zambonelli, 25 luglio e 8 settembre alle Reggiane, in RS-Ricerche storiche n. 49, Istoreco, Reggio Emilia 1983
(8) Archivio storico OMI Reggiane, busta 73 Rapporti con enti germanici